«Il blues non è musica per tutti», dice il protagonista Marco Buratti tra le luci soffuse di un locale. E forse, nemmeno L’alligatore è una serie tv per tutti, senza che ciò suoni come un limite. Il nuovo prodotto di Rai2 (dopo un passaggio su RaiPlay che ha soddisfatto soprattutto i cultori del binge-watching) è un omaggio ai romanzi noir di Massimo Carlotto. A tratti L’alligatore non sembra una serie italiana, per via di un incedere sincopato, dove è il blues a scandire il ritmo tra ordinario e colpo di scena, dove la provincia prova faticosamente a ritagliarsi uno spazio distante dallo stereotipo (anche se l’antieroe rischia di diventare un nuovo stereotipo). Buratti, alias «l’alligatore» (Matteo Martani), è uscito dopo sette anni dal carcere, dove era stato rinchiuso ingiustamente per coprire l’amico Max al termine di un blitz animalista.
Una volta libero, viene avvicinato da un’ispettrice che lo coinvolge per fare luce sulla scomparsa di un ex compagno di cella; Buratti si circonda di personaggi liminari come il milanese Rossini, in un tortuoso percorso che sembra voler riecheggiare le epopee criminali delle «male» del nord, ma con un desiderio di giustizia che anima il protagonista. Le atmosfere noir s’intersecano con ambientazioni e paesaggi di Padova e di un Veneto spoglio ed essenziale, tra nebbie e paludi dove risuonano cadenze dialettali del luogo. L’alligatore, una produzione Rai Fiction in collaborazione con Fandango per la regia di Daniele Vicari ed Emanuele Scaringi, si compone di quattro prime serate, ciascuna delle quali porta a termine un caso autoconclusivo e allo stesso tempo aggiunge tasselli alla linea orizzontale del racconto. Fondamentali anche le presenze femminili che si contendono il fascino dell’«alligatore»: Greta (Valeria Solarino) è una cantante blues, ex compagna del protagonista, e Virna (Eleonora Giovanardi) la donna che entra nella sua nuova vita.