«Come hai fatto a non accorgertene», «Come mai non te ne sei andata prima», «Perché non hai chiesto aiuto», «Se hai accettato di restare in fondo così male non doveva essere», «Possibile che di tutto questo nessuno abbia visto niente». Lo so, le conosco a memoria le obiezioni di chi ti ascolta quando finalmente riesci a dire, dopo esserti liberata. Fuggita dalla prigione nella quale stavi – tuttavia – per tua volontà, dunque che prigione era? Nessuno ti obbligava. È la cosa più difficile da spiegare a chi non ci sia passato: come sia stato possibile arrivare fin qui, fino al limite e oltre. Ne ho parlato per mesi, ancora di tanto in tanto ne parlo, dopo anni, con Irina Lucidi. Che non conoscevo, quando si presentò da me perché aveva bisogno di essere ascoltata – «l'unica cosa che ancora non ho fatto è stata raccontare, ma per riuscirci ho bisogno di qualcuno che mi veda e mi senta» – e che è diventata preziosa amica, dopo tutto questo tempo. Insieme, allora, ci siamo fatte domande a vicenda: come è possibile non capirlo prima, come è possibile tacere con gli altri, nascondere anche a se stesse. La sua storia l'ho raccontata – l'abbiamo, insieme – in Mi sa che fuori è primavera, un libro che è stato una cura e non solo per noi. Qualche settimana fa una bravissima libraia mi ha detto: «Dovete leggere Meena Kandasamy, tu e Irina».
Meena Kandasamy, nata nel 1984, è una poeta, scrittrice, traduttrice e attivista indiana. Un'attivista politica. Una donna colta, consapevole, libera. Come Irina parla molte lingue, ha studiato, ha viaggiato, ha lavorato e guadagnato abbastanza per vivere bene del suo reddito, ha avuto molti amori ed è stata felice. Come Irina, ha sposato un giorno un uomo di cui non era esattamente innamorata ma convinta di esserlo, almeno quanto basta per fermarsi a fare quel che le sembrava di volere. Irina aspettava le sue bambine gemelle, le bimbe che lui le avrebbe portato via. Meena voleva provarsi moglie, e diventare una militante esemplare: perché lui lo era – un docente universitario, un attivista, con dei trascorsi descritti come eroici. Si intitola Ogni volta che ti picchio, il suo libro. Lo pubblica e/o. Vi prego di leggerlo: è un'esperienza che cambierà la vostra percezione di ciò che vi sta attorno. Mai ero scesa insieme a qualcuno in fondo all'abisso così portata per mano, dolcemente, lentamente. Con convinzione, in certi momenti, con lucidità. Mai avevo capito fino in fondo quanto la gentilezza formale, così irritante, la cortesia del linguaggio di chi ti chiede come stai solo pro forma sia un inganno reciproco, consensuale, per aiutarsi a non dire, a non sentire. Una barriera – «come va, a casa, tutto bene?» – che ti impedisce di mandare un segnale. Perché loro non vogliono sapere, e tu non sai dire. Anche coi genitori: c'è qualcosa che somiglia a un fallimento delle aspettative, il bisogno di cambiare voce (la voce che si usa con la madre, al telefono: un po' più alta) e di tranquillizzare. E gli amici non volevano disturbare il tuo bisogno di silenzio. E non pensavano che. Credevano anzi. Manipolazione, ricatto emotivo, pressione familiare e sociale. Autoinganno. Può succedere a tutti, anche se hai tutti gli strumenti per difenderti: può succedere. Ascoltate chi sa raccontarlo. Un libro può salvare la vita.