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Il rimedio di Mathias Enard: fare concorrenza alla morte

Autore: Eraldo Affinati
Testata: Il Riformista
Data: 1 novembre 2020

Leggere l’Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona di Mathias Enard (pp. 261, edizioni e/o, 18 euro), titolo quasi istrionico e mezzo ironico, che allude a un luogo preciso della metropoli catalana, la libreria-caffetteria di Pau Claris dove appunto si svolgono periodiche riunioni letterarie, è come strappare un frutto dall’albero rigoglioso nel giardino proibito e mangiarselo di nascosto all’angoletto della città vecchia, alla maniera dei gatti randagi: anche se uno non conoscesse gli altri testi dello scrittore francese, nato nel 1972 a Niort, viaggiatore poliglotta esperto di lingue orientali che insegna arabo all’ombra della Sagrada Familia, fra cui ci sono almeno due pezzi forti, Zona (2008) e Bussola (2015), potrebbe comunque, limitandosi a questa raccolta poetica, gustare, apprezzandolo, il succo dell’intera sua opera.

Che vede al centro il rapporto, come spesso per brevità usiamo dire, fra Occidente e Oriente, ossia uno degli scarti planetari più inquietanti e significativi della nostra epoca: da una parte la lente d’ingrandimento dello spirito illuminista, attraverso cui passa la volontà di comprendere e analizzare il mondo secondo uno schema razionale, non a caso l’autore si è formato all’École du Louvre; dall’altra l’atteggiamento speculare del saggio confuciano che invece lascia scorrere impassibile lungo il fiumi i cadaveri e i rottami delle civiltà trascorse senza cedere all’impulso di intervenire per interrompere o soltanto regolarne il flusso. Il fondo è, ancora una volta, il contrasto fra Napoleone e Kutuzov, che galvanizzò il giovane Tolstoj: il primo avanza, il secondo arretra. A ben riflettere, la scelta di Mathias Enard è quella di piazzarsi proprio in mezzo alla contesa: nel Medio Oriente, nel punto martoriato eppure elettrico, denso di rovine e presagi, in cui passa la frontiera, nel conflitto delle identità contrapposte: “dietro di te, là dove il nemico osserva / la tua solitudine.”

È la ragione per cui potremmo assumere Fare concorrenza alla morte, la splendida sezione iniziale del libro, come una sintesi fantasmatica di tale orientamento lirico: “Beirut dal gusto di timo e copertoni bruciati / stava per succedere qualcosa… / i teli da mare / l’immondizia / e le albicocche / il sole seccava tutto tranne l’olio delle sardine e / il grasso delle armi…” Forse è proprio questa attesa febbrile di qualcosa che incombe a dettare il ritmo interiore al procedere sincopato della scrittura: “Il allait se passer quelque chose”. Non c’è bisogno di descrivere l’effetto che provoca la guerra quando cadono le bombe sui palazzi lungo la corniche. Basta ricordare il gruppo di ragazzi in mezzo ai quali magari c’eravamo anche noi: “Avevamo comprato dei materassi à Ouzai che / legavamo sul tetto della macchina / per farceli stare tutti / e, una volta, / Imad ha perfino dormito sopra quella carretta / senza slegare i materassi / al chiaro di luna sul tetto immenso della vecchia / Dodge…”

Tornano i fantasmi dei primi romanzi di spie (indimenticabile il protagonista di Zona, nel notturno viaggio ferroviario da Milano a Roma) e orientalisti (come quel pazzo di Franz rinchiuso a Vienna di fronte allo schermo del computer a rimuginare, in Bussola, sul suo perduto amore), quando Sobibòr, buco nero della Shoah, diventa l’emblema dell’Europa sfregiata e Sarajevo “dai mille ponti” scopre senza imbarazzi le proprie ferite, vecchie e nuove. È sufficiente la pistola che il tassista tiene nel cruscotto (“l’arma ha una stella / tatuata al centro del calcio”), a farci ricordare il trionfo della violenza profonda che nasce e si forma negli antri reconditi della natura umana. In quei Balcani dalla speranza prosciugata nei fossi, dove “gli agnelli arrostiscono ai bordi delle strade”, un sorso di rakija tracannato dalla bottiglia può far rispuntare dai finestroni i traccianti delle sere maledette.

Lo sguardo intenso e acuminato di Mathias Enard, non più quello del tiratore scelto sulle macerie sottostanti, che aveva dato vita alla Perfezione del cecchino (2018), scavalca le dogane e procede con cieca determinazione verso l’infinita steppa cechoviana – “Delle due querce sento solamente / le rovine sotto i miei passi…” – acquistando una dimensione postuma: “Ci vorrà così tanto tempo per capire qual era il / mio posto quando ero in vita”, secondo lo schema della transiberiana sperimentato in L’alcol e la nostalgia (2017). Fino ad arrivare in India: “Tu che hai percorso le ferite del Pamir / sentito il persiano che parlano i Tagiki / e sputato sulla tua mano aperta dai sassi / questo paesaggio martoriato di montagne magiche / infinitamente pietrose.”

Questo scrittore, quando dichiara “Todos somos hijos de la guerra”, dimostra sul campo delle operazioni, nella vecchia pista oggi semidistrutta della letteratura, l’impossibilità, per ogni essere pensante, di chiamarsi fuori dal drammatico contesto planetario in cui viviamo, nella prefigurazione ideale di una consapevolezza che dobbiamo accettare per dimostrare, innanzitutto a noi stessi, di poter diventare ancora, nonostante tutto, uomini adulti e responsabili. Senza dimenticare quando eravamo bambini, anche se tutto a volte sembra congiurare contro questa memoria: “L’infanzia, regina del tempo, / è un panno lacero, oscurato dal vento.”