Che cosa vole dirci Mathias Enard quando scrive «Todos somos hijos de la guerra» e «la guerra sa tornare sotto la pioggia e squarciare le nuvole con fulmini rossi»? Isolati da poesie della raccolta Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona, sedimentata in molti anni di viaggi, questi versi, insieme ad altri di argomento simile, mostrano che Enard non ha mai smesso di interrogare la guerra, dalla quale è attratto non meno di Michael Herr e forse con una disposizione mentale non troppo diversa da quella dello sceneggiatore di Apocalypse Now. La prima delle tre sezioni di questo libro si intitola Fare concorrenza alla morte e inizia con la poesia Beirut (la prima esperienza di viaggio di Enard fu proprio in Libano); vi si legge: «A Beirut ho intravisto la guerra (…) e ricordo che dovevamo lottare / per non vedere bellezza in quel concerto / lassù a Hazmieh / quando il fuoco si abbatteva sulla città / e l'apocalisse sui nostri cuori adolescenti». Michael Herr, l'autore di Dispacci, parlando di guerra in una rara intervista ha detto: «Il fatto che si possa sperimentare tanta bellezza e tanto piacere in una situazione orribile e agghiacciante è un problema per la mentalità occidentale, è un problema...» Le posizioni di Herr e Enard si potrebbero anche liquidare con un'etichetta («estetismo»), ma questo non aiuterebbe a inquadrare meglio la questione.
Enard, persona estremamente gentile e socievole, non è certo un guerrafondaio. Pure, nei suoi libri (da La perfezione del tiro al capolavoro Zona, fino a Bussola che gli valse il Prix Goncourt nel 2015), la violenza della guerra è un tema centrale. Lo è anche in queste poesie, dove torna a più riprese la figura del poeta armato, capace di maneggiare bene tanto le armi quanto «il calamaio». Questo basta a capire che non è la violenza in sé a interessare Enard ma la violenza collettiva che prende una forma anche culturale con la guerra. Più che nei romanzi, la posizione ideale di Enard in merito emerge proprio da questo suo taccuino inedito che raccoglie tracce, odori, memorie dalla disseminazione dei suoi viaggi: in uno dei testi lo scrittore francese sogna un luogo idillico dove l'unica lingua è quella dell'acqua sorgente, che «sgorga da una presenza sussurrante». Idillio di un rifugio dove la lingua non può entrare davvero, che ci porta «al centro del niente dove ogni uomo è lo stesso, dove non c'è nessuna divisione, nessun fratricidio possibile». Ma questo idillio esiste solo nel sogno, dove non c'è la storia; il nostro mondo invece è nato con Babele, quando la lingua universale della natura si è frammentata in miriadi di lingue e culture, e la storia ha fatto irruzione nel tempo. Enard si mostra sempre consapevole di questo: ha dichiarato più volte che lungo le frontiere l'umanità accumula le tensioni più gravi ma è proprio lì, nel massimo differenziale dell'alterità, che i più curiosi e i più pazienti – come lui – possono incontrare la profonda conoscenza dell'uomo.
Costante, accanto alla guerra, in queste liriche che si leggono ora nella bella traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta, è la presenza femminile, che esprime un altro linguaggio, forse un altro orizzonte, rispetto a quello della violenza, e tende a costruire una visione condivisa, primo ponte tra due singole alterità. Nei romanzi di Enard ogni volta che si passa da un luogo a un altro c'è una «frana» nel tempo del racconto; qui invece, nelle prime due sezioni del libro, caleidoscopio meraviglioso, i paesaggi della vita di Enard sono convocati in presenza e visti come dal satellite: Medio Oriente e Asia (un testo, bellissimo, sui monti del Pamir), i Balcani frontiera porosa tra oriente e occidente, la Polonia tra neve e memorie concentrazionarie mai spente, la Spagna patria d'adozione di Enard. Il titolo del libro – un pretesto, o un depistaggio d'autore – deriva da una poesia della terza parte, dove sono raccolti testi meno coerenti con l'insieme. Il meglio, anche formalmente, è nelle glaciali cartoline polacche, nei paesaggi delle steppe, nel flusso ininterrotto di Beirut.