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Seni, uova e altre rivoluzioni

Autore: Giulia Pompili
Testata: Il Foglio
Data: 17 ottobre 2020

Le donne del romanzo di Mieko Kawakami cambiano le regole della società giapponese. Non sono le uniche

Qualche mese fa in Giappone è diventato virale un tweet. Una ragazza raccontava di aver assistito a una scena, al supermercato: una mamma aveva un bambino in braccio e tra le mani un’insalata di patate pronta, e un signore più vecchio le si era avvicinato dicendo “ma come, sei una madre, non puoi preparartela da sola?”. In occidente la storia del “potesara ronso” (vuol dire: la polemica sull’insalata di patate) è diventata un episodio di “mansplaining”, cioè un uomo che in modo paternalistico dà delle spiegazioni non richieste a una donna. Ma nella società giapponese non c’è solo questo, e il motivo per cui quella storia è diventata virale è molto più profondo. Per settimane sui blog e i social network sono state pubblicate classifiche di piatti pronti disponibili nei supermercati nipponici, consigli di cucina e di genitorialità con il cancelletto #potesararonso. La poetessa Kiriu Minashita ha raccontato sul suo blog che una volta ha lasciato suo figlio di due anni dentro a un carrello della spesa per fare bancomat. Si è voltata, il bambino si è allungato, stava per cadere, e un uomo anziano che assisteva alla scena le ha urlato addosso: “Ma che fai! Guarda!”. Per le donne giapponesi non si tratta soltanto di “mansplaining”, perché c'è poco di paternalistico in quello che gli sconosciuti dicono alle donne: c’è piuttosto l’umiliazione pubblica, la volontà di sottolineare quanto quella madre, quella donna sia lontana dai canoni ritenuti necessari per la sopravvivenza della società giapponese. Non a caso Kiriu Minashita lega gli episodi al recente fenomeno dei “ji-shuku keisatsu”, letteralmente “polizia dell'autocontrollo”, quelli che online denunciano e bullizzano le persone che secondo loro non si attengono alle regole disposte dal governo per limitare i contagi da Covid-19.

Nel 2007 in Giappone esce un libro di cui si parla da subito tantissimo: “Chichi to tamago”, che significa letteralmente “seni e uova”. L'autrice è una trentunenne che aveva aperto un blog per promuovere la sua musica, in un momento in cui i blog erano popolarissimi in Giappone. Mieko Kawakami viene criticata perché non arriva dall’ambiente letterario, non è una che ha studiato per diventare scrittrice, è di bell’aspetto, faceva la hostess in un bar e poi l’impiegata in una libreria. Pubblicava le sue canzoni online, e poi ha iniziato a scrivere di sé. A un certo punto circa 200 mila utenti, ogni giorno, andavano a leggere quello che scriveva. “Seni e uova”, il suo terzo libro pubblicato da una casa editrice, inaspettatamente vince l'Akutagawa, il premio letterario più importante del Giappone. Allora, sulla poltrona del governatore di Tokyo siede il potente Shintaro Ishihara, ex scrittore, vincitore dell'Akutagawa nel 1955 che fa parte anche del consiglio direttivo del premio. Ishihara è contrario al riconoscimento consegnato a Kawakami, e lo scrive sulla rivista pubblicata dall’Akutagawa: “Il divagare egocentrico tutto concentrato su se stessa della sua scrittura rende questo libro spiacevole e intollerabile”. Amico di Yukio Mishima, Ishihara rappresenta alla perfezione quel conservatorismo che per decenni ha regolato la vita politica nipponica: una donna che parla di sé, che parla delle altre donne, di donne che non sono esattamente come gli altri si aspettano, è “spiacevole e intollerabile”. È questo conservatorismo che sta perdendo pezzi, perfino in Giappone.

“Che cosa significa essere in grado o non essere in grado di fare l'amore?”, si domanda a un certo punto Natsuko, la protagonista di questo romanzo mentre tenta, senza riuscirci, di masturbarsi: “Dal punto di vista puramente fisico, ero una donna adulta dotata di un normale organo sessuale ed ero perciò nelle condizioni di avere dei rapporti. Eppure non riuscivo ad averne”. Secondo molti critici letterari “Seni e uova” non è un romanzo di formazione, e nemmeno, come qualcuno ha scritto, “le tre età di una donna”. Ci sono moltissime donne dentro questo libro di oltre seicento pagine, che si legge a pezzi, o tutto insieme, e ogni volta fissa un’immagine nella memoria. II Giappone è un pezzo fondamentale della narrazione, nelle descrizioni delle città di Osaka e Tokyo, la provincia e la metropoli, nei quartieri dei poveri che tentano di sopravvivere, tra i pasti a poco prezzo e le sale pachinko, quei gironi infernali dove si gioca a una macchinetta molto simile a una slot machine, e da cui molti giapponesi sono dipendenti. La prima versione del libro di Kawakami, quello uscito nel 2007, corrisponde alla prima parte del romanzo completo aggiornato l’anno scorso, e che è diventato un caso editoriale in tutto il mondo. In Italia è stato da poco pubblicato da edizioni e/o, con l'accurata traduzione dal giapponese di Gianluca Coci (attenzione, perché i romanzi asiatici tradotti non dall’inglese ma della lingua originale si distinguono). La seconda metà del romanzo, Kawakami l’ha scritta dieci anni dopo la prima, ed è anche ambientata dieci anni dopo, tra l’estate del 2016 e quella del 2019. Nella prima parte Natsuko è una ragazza di Osaka che vive a Tokyo, ha trent’anni e si paga l’affitto facendo la hostess: sono quelle ragazze che nei bar intrattengono i clienti, ma senza approccio fisico. Le piace leggere, ma soprattutto le piace scrivere. Un giorno riceve la visita di sua sorella maggiore, che è rimasta a vivere a Osaka, e di sua nipote adolescente: le due non si parlano da mesi. Quello che succede in quei tre giorni di visita è un racconto “claustrofobico”, come ha scritto Holly Williams sul Guardian, perché effettivamente non succede niente, ma tutte e tre, queste donne, hanno qualcosa da dire, e su cui riflettere, qualcosa da elaborare. La sorella maggiore di Natsuko, Makiko, da mesi è ossessionata da un’idea: quella di rifarsi seno. Studia ogni opzione, cerca le cliniche migliori, ed è Natsuko a porle dei dubbi, soprattutto dal punto di vista economico, e proprio non la capisce questa sorella quasi quarantenne, sola, e con soltanto un lavoro precario, che vuole spendere tutti quei soldi per delle tette. Ma poi dice: “La bellezza è sinonimo di bontà. E la bona è il tramite per la felicità. La felicità non è una sola, esistono varie definizioni di felicità, ma tutte le persone la inseguono”. La figlia di Makiko, Midoriko, sarebbe felice se non le venissero mai le mestruazioni. Lo scrive lei stessa, nel suo diario: è ossessionata dal momento in cui le verranno, probabilmente nel giro di poco, e si domande perché la gente festeggi in famiglia una cosa simile: “È assurdo, tutto è legato al fatto che si continua a dire e a pensare che diventiamo donne nell’attimo in cui comincia a scorrere sangue in mezzo alle gambe e che, in quanto donne, siamo destinate a donare la vita. C’è qualcosa di cui vantarsi e andare fiere in tutto questo?”.

Nella seconda parte del romanzo, Natsuko è una donna in carriera, concentrata sul suo secondo romanzo, ancora da scrivere, ma rappresenta alla perfezione uno dei problemi alla base della società giapponese: la difficoltà dei rapporti umani. Natsuko vuole un figlio ma non sa come gestire i rapporti con le persone, e resta sostanzialmente sola: l’amicizia con la sua editor Sengawa, che forse non è soltanto un’amicizia ma un dramma comune, le sue colleghe, e poi Jun Aizawa, l’amore dell’età adulta che però non si concretizza nella fisicità: Natsuko ha provato da ragazzina a fare l’amore con un uomo ma ha promesso che non lo farò più, perché le fa male. Eppure vuole un bambino, lo desidera al di là della relazione di coppia con un uomo. Ed è una specie di rivoluzione anche solo pensarlo, in una società come quella nipponica: un figlio esiste se c’è una famiglia, oppure è “un limite alla libertà individuale”, come dice a Natsuko alla sua editor Sengawa. Kawakami non vuole essere definita una scrittrice femminista, “perché ha ancora un’accezione estremamente negativa in Giappone”, ha detto in un’intervista a Motoko Rich sul New York Times. E quando al quotidiano Asahi ha detto che le donne dovrebbero smetterla di riferirsi al proprio marito come “shujin” - una parola che significa marito, ma in senso esteso, perché il significato primario è “padrone” - è stata molto criticata sui social network. “Non è accettato per le donne che sono sulla quarantina, hanno un lavoro sicuro e un certo reddito, pensare di voler avere una famiglia senza avere un partner. Anche se stanno cercando una banca del seme, non si fanno avanti. II Giappone è così conservatore quando si tratta di donne e di sesso”. “Sono rimasta scioccata quando all’università la gente continuava a dirmi che dovevo cercare un marito benestante e pensare ad avere figli”, ha detto in un’intervista al Guardian. “Se è così, che senso ha ottenere la laurea? Ho guardato i miei amici e mi sono domandata cosa fare. La società sembrava contro di noi”. E infatti, scrive, le donne che si sposano poi sono dipendenti dai mariti perché l’indipendenza economica, per le madri lavoratrici, in Giappone è una specie di utopia. Ci ha provato, il governo di Shinzo Abe, a far “tornare le donne a splendere” (era uno degli slogan delle sue campagne elettorali), ma alla prova dei dati, il paese è ancora uno degli ultimi per quanto riguarda l’impiego femminile e le donne ai massimi livelli dirigenziali. “Credevo che quando sarei arrivata alla mia età uomini e donne sarebbero stati uguali, ma non è così”, ha detto Kawakami.

“Seni e uova” è un libro importante per la società asiatica perché da dieci anni continua a mettere in circolo certe idee, e lentissimamente contribuisce a spezzare le catene della tradizione. Ma Mieko Kawakami non è la sola. Fino a poco tempo prima di vincere l’Akutagawa, la scrittrice Sayaka Murata lavorava in un convenience store. Sono quei minimarket aperti giorno e notte un po’ ovunque nel mondo, ma che in Giappone fanno parte della cultura e dell’identità nipponica, un pezzo fondamentale non solo del business ma anche del modo di vivere dei giapponesi. La protagonista del romanzo di Murata, “Konbini Ningen”, tradotto in italiano “La ragazza del convenience store” (edizioni e/o), è una donna particolare, patologicamente timida, che non si trova a suo agio da nessuna parte. Ha bisogno di regole e finisce a lavorare con grande passione in quello che per la società è il posto più consono per lei: il minimarket. In un “konbini”, come si chiama in giapponese, il cliente viene accolto e servito come in nessun altro posto: è una celebrazione affettata, recitata, ma serve a stabilire e sottolineare quei ruoli fondamentali per la società giapponese. “Questo mondo non tollera le anomalie. Ho sempre sofferto molto per questo”, fa dire Murata al protagonista maschile del romanzo, Shiraha: “Dobbiamo per forza essere tutti uguali? Come mai non hai ancora un lavoro fisso, a trentacinque anni? Perché non hai mai avuto una ragazza? È una vera fissazione, tutti a chiedere se hai avuto esperienze sessuali o no. E qualcuno, ridacchiando come un idiota, si permette anche di precisare: ah se sei andato a prostitute non conta! Io non do fastidio a nessuno ma gli altri si permettono di violare la mia vita privata, perché sono diverso e in minoranza”. Shiraha riconosce per un attimo il problema della pressione sociale, ma questo non gli impedisce di arrivare alla soluzione più comoda, cioè quella di fare esattamente ciò che la società gli chiede: trovarsi una donna, abusarne, diventare quello che in occidente chiameremmo un maschio tossico.

Come Mieko Kawakami, Murata fa parte di una nuova corrente di scrittrici che sta dando voce a un cambiamento concreto in Asia orientale. II riconoscimento di un problema che passa attraverso la letteratura. Il successo di Han Kang, scrittrice sudcoreana che nel 2016 ha vinto il Man Booker International Prize per “La Vegetariana” (Adelphi), è stato per tanto tempo ignorato dal governo di Seul perché la sua scrittrice più letta all’estero era quella che denunciava un sistema sociale arcaico, umiliante per le donne, che pure ancora esiste in Corea del sud. La protagonista del libro, una moglie che aveva sino ad allora rispettato tutte le regole imposte dalla società, una notte fa un incubo pieno di carne, e il giorno dopo decide di diventare vegetariana: “Fissai i suoi occhi abbassati, la sua repressione fredda e imperturbabile. L'idea stessa che avesse quel lato diverso, egoistico, e facesse semplicemente come le pareva mi lasciò stupefatto. Chi mai avrebbe pensato che potesse essere così irragionevole?”. Han Kang lascia che sia il punto di vista del marito a raccontare il cambiamento, ma lo smettere di mangiare carne è solo un pretesto, un simbolo di una evoluzione. Con il termine ajumma in Corea del sud ci si riferisce alle donne sposate di mezza età, quasi tutte identiche non solo nel carattere mostrato all’esterno, ma anche nel modo di vestire, negli hobby, nel modo di condurre la vita familiare. Sono donne forti, fiere della loro posizione, determinate. Anche se la parola non ha un’accezione particolarmente positiva in coreano, una donna di mezza età in Corea vuole essere una rassicurante ajumma. La protagonista del libro di Han Kang è l’esatto opposto: decide qualcosa per lei, e scardina quei principi di prevedibilità ribellandosi a un moto che le è stato imposto.

Come le donne di Mieko Kawakami, che si confrontano, decidono, soffrono, restano sole. E lo fanno indipendentemente dagli uomini.