Lo scrittore francese, orientalista, Mathias Enard è innanzitutto un grande viaggiatore, che ha esplorato mondi concepiti erroneamente come separati dall'Occidente. Nato nel 1972, dopo aver studiato lingue orientali all'Inalco di Parigi e storia dell'arte all'Ecole du Louvre, ha vissuto in Iran, Egitto, Libano, Tunisia e Siria. Risiede a Barcellona da quindici anni, dove è professore di arabo. Bussola è il romanzo che nel 2015 lo ha consacrato a livello internazionale con la conquista in Francia del prestigioso Premio Goncourt ed è stato finalista del Man Booker Prize anglosassone.
Nelle librerie italiane approda la raccolta di poesie dal titolo Ultimo discorso alla società proustiana di Barcellona (e/o, 261 pagine, 18 euro, traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta). È una sorta di autobiografia in versi che esprime la coscienza cosmopolita di Enard e ricostruisce la mappa dei suoi viaggi fondamentali in posti feriti e ricchi di storia: da Beirut ai Balcani risalendo nel cuore della Polonia.
Che cosa rappresenta la frontiera?
«È al contempo una maledizione e un luogo interessante nella prospettiva dello scambio. Le frontiere sono artificiali, poiché sono definite dagli uomini, e hanno assunto sempre più l'accezione geopolitica di separazione. Il Mediterraneo è divenuto una gigantesca linea di frontiera tra due o più mondi».
A livello culturale?
«Le zone di confine sono sempre state un grande laboratorio per prima cosa linguistico. Assistiamo a un rafforzamento non solo tecnologico delle frontiere senza precedenti nella storia, ma è proprio nelle terre di mezzo che si formano le idee e i pensieri più fecondi».
Come è nato il titolo del libro?
«A Barcellona esiste una Società proustiana e si tengono le riunioni nella libreria-caffetteria di Pau Clarìs. Non volevo che il titolo fosse poetico come invece è la raccolta. C'è una parte chiaramente legata a Zona, una a Bussola. Si tratta di poesia, ma anche narrativa: considero la raccolta una geografia dei miei viaggi».
Perché è salpato molto giovane dalla Francia?
«Sono cresciuto a Niort, una cittadina della Provenza. I1 viaggio è stato una sorta di liberazione dai confini della provincia. La passione originale era per il mondo arabo. II primo viaggio è avvenuto in Libano. Ho raggiunto Beirut dopo la fine della guerra civile. Partito per un reportage, sono rimasto dieci anni a studiare in Medio Oriente».
Qual è la vera dimensione del viaggio?
«Richiede tempo e conoscenza».
Perché il Libano, che ha ispirato l'esordio letterario con "La perfezione del tiro", è stato la prima meta?
«L'ho sempre sentito come un luogo dell'anima. È un paesaggio culturale straordinario. Nel Novanta era un paese distrutto, pieno di mine e confini interni violenti».
Che cosa simboleggia questo Paese?
«È una fonte originale dell'umanità. Europa è una principessa fenicia rapita da Zeus sulle coste del Libano. Non amo la definizione di mosaico di popolo, perché nessun luogo risponde a un disegno unico. È tutto in movimento sull'orlo del precipizio e le sue sfide di convivenza ci appartengono».
In che modo resiste Beirut?
«Gli abitanti di Beirut lottano tutti i giorni. Vivere a Beirut significa sapersi battere. Le trasformazioni indotte dalla guerra la rendono in eterna costruzione. Brilla di mille luci con lo spirito di accoglienza dei libanesi. È buia perché è la capitale della corruzione e dell'impossibilità di una vita libera».
Quale certezza ha maturato sulla Siria?
«L'impossibilità di qualunque previsione».
Esiste un dialogo culturale mediterraneo?
«Siamo regrediti alla visione del mondo dei romani e dei greci nell'antichità. Si cerca di contenere le minacce terroristiche o semplicemente strategiche come si faceva con i barbari. Oltre la frontiera si inviano le truppe, tuttavia non si legge e comprende ciò che accade».
Perché continuiamo a considerare i Balcani altro dall'Europa?
«Per le differenze religiose insite. La scarsa lungimiranza persiste dalla dissoluzione dell'ex Jugoslavia. Sembra assurdo, ma è così, mentre sono una regione chiave nel rapporto tra Oriente e Occidente, l'Est e l'Ovest. Abbiamo dimenticato la lezione di Sarajevo: una città che pur con dei conflitti fioriva di tre culture: giudaismo, cristianesimo e Islam».
Qual è il senso del cosmopolitismo?
«Vorrei credere che sia ancora un valore, qualcosa di reale. È fra le nostre sfide più grandi. Nel tempo la sua accezione in origine negativa è cambiata: da tutto ciò che non ha un centro di gravità alla possibilità di sentirsi a casa un po' ovunque. Occorre trovare un nuovo equilibrio tra il locale e l'esigenza di interrogare l'universale».
In Europa la concezione del ghetto è ancora viva?
«Il ghetto è un aspetto triste della cultura europea che corrisponde alla volontà della Venezia medievale di rinchiudere gli ebrei e in generale di chiudersi alla differenze. In Europa abbiamo quasi perso l'yiddish, la lingua culturale di tutto l'Est europeo, che è divenuto una lingua newyorkese o israeliana. Abbiamo cacciato e perduto questa ricchezza per paura di noi stessi. Il retaggio dell'antisemitismo non si è fermato al 1945. La Polonia, dove si è consumata larga parte della persecuzione ebraica, è la testimone del conflitto di memorie che lacera l'Europa».