l maschio appartenente a qualsiasi società umana ha sempre associato la donna ad un’alienità incomprensibile, ora affascinante e desiderabile, ora repellente e temibile. In Giappone il buddismo arrivò ad enfatizzare entrambi i ruoli: la geisha prostituta e la serva oberata di doveri nei confronti di famiglia e clan, e priva di qualsivoglia diritto. Se pensiamo che alla fine del 1800 il paese del Sol Levante era ancora una società feudale, e che dal dopoguerra in poi è governato da forze reazionarie, non c’è da stupirsi che prima o poi arrivi una Kawakami a togliere il fiato ad Haruki Murakami nel descrivere un mondo assai diverso da quello che il patriarcato nipponico (e non solo) tuttora vagheggia. Parla di dismorfismo, del senso del creare e del vivere, di mestruazioni, solitudine, abusi, scelte sofferte ma sempre e comunque coraggiose. E lo fa attraverso la voce non filtrata di 3 generazioni di donne che (soprav)vivono da sole al di fuori della società tutta Gucci, anime, samurai, robot e sakura che fa tanto impazzire i nippofili stile Disney.