Nives ha sessantasette anni quando resta vedova, dopo che il suo Anteo è caduto a faccia in giù nel trogolo dei maiali. L’incipit è asciutto, come del resto asciutta, scabra, ridotta all’essenziale è sempre la prosa di Naspini. Dopo molti anni passati insieme a un altro, abituata ai suoi rumori, agli odori, a un’intimità viscerale accresciuta dall’isolamento e dal legame forte con la terra, la donna si trova sola. Non versa una lacrima, ma tutto il dolore trattenuto le si accumula dentro, creando una pressione crescente che non ha valvola di sfogo e che sfocia in tremendi attacchi d’ansia notturni.
Che non mi basto? si diceva. Scoprirlo in tarda età era una mazzata che prendeva malvolentieri. Ogni mansione si appesantiva di quell’accento: il fatto non condiviso andava perso. (p. 12-13)
Mentre avvizzisce e smarrisce la lucidità, notte insonne dopo notte insonne, sospeso sopra la testa lo spauracchio di doversi trasferire oltralpe (ma è come dire su Marte), a casa della figlia e del genero, “uno di quei tizi che per spremergli un sentimento bisogna tirargli una coltellata” (p. 10), Nives sente di perdere il controllo sulla vita, e dubita finanche di averne avuta una che potesse dire veramente propria.
Questo almeno finché non individua la soluzione perfetta: Giacomina. Una gallina storpia, che però ha qualcosa in più nel luccichio degli occhi, un po’ “rincretinita”, un po’ profetessa e compagna di ventura. Giacomina caccia i fantasmi dalla camera da letto; con lei accanto Nives ritrova uno sguardo su di sé e quindi si ricorda di esistere, ricomincia a dormire, a parlare. Con Giacomina, il marito defunto non le manca quasi più. La disturba solo un po’ rendersi conto di “aver dato la vita a uno che poteva essere rimpiazzato da un pollo. [...] E si sentiva sudicia. E anche sprecata” (p. 20).
Tutto questo accade nelle prime venti pagine. Perché poi la gallina si congela. Con quel gusto per il grottesco che trapassa nella normalità, comune anche alle sue altre opere (si veda I Cariolanti, recensito qui), Naspini introduce l’elemento di frattura nella nuova routine della protagonista: mentre guarda la pubblicità del Dash, con la biancheria che viene rimestata nell’oblò, Giacomina si incanta, e nulla basta a risvegliarla. L’unica soluzione allora è chiamare alle soglie di una lunga notte l’amico veterinario, Loriano Bottai, semi-alcolista da strappare dal letto a viva forza.
Inizia così una telefonata eterna, una lunga rincorsa, una sfida dialettica che si concluderà solo alla fine del romanzo. È quella che in narratologia si chiamerebbe scena, cioè una porzione di testo in cui il tempo della storia coincide con il tempo del racconto. Chi abbia visto Carnage riconoscerà nel dialogo serrato tra i due personaggi lo stesso impulso alla reciproca distruzione, miscelato però a sentimenti contraddittori di empatia per l’altro, curiosità per le verità che si annidano in un lontano passato, e necessità di andare fino in fondo alla conversazione. Tra una battuta e l’altra si aprono sottili crepacci di silenzio, “di quelli in tempesta, dove dal profondo cominciano a muoversi i mostri” (p. 37). In questo caso, lo spettro che si aleggia su di loro è quello di Rosa, giovane donna suicida per passione, ma anche metafora dei rimpianti e del malessere che ciascuno si porta dentro nello scorrere dell’esistenza, dell’ossessione mai risolta per i bersagli mancati, gli obiettivi sfumati. Rosa, come molte altre ragazze del paese, aveva amato Renato Pagliuchi, instancabile seduttore dagli occhi verdi. Lei, però, a differenza delle altre, non era riuscita ad accettare la sua natura, di non poterlo imprigionare o legare a sé. Quella che sembra la storia di una torbida avventura si rivela però ben presto un gioco di specchi, in cui ogni apparente verità ne cela un’altra, situata a un livello più profondo di consapevolezza. E dallo scambio rapido, incalzante, delle parole, “una marcia tra le mine” (p. 53), in cui a ogni passo una certezza rischia di deflagrare, nessuno è indenne. È una latente, sottile furia iconoclasta quella che spinge Nives a smuovere zolle di trascorsi lontanissimi:
“Ha senso parlarne ora?”
“Ha senso non averne parlato mai?” (72)
Perché i fantasmi che perseguitano il presente non sono solo quelli dei mancati, ma anche quelli di ciò che si sarebbe potuti essere e non si è stati, per mancanza di coraggio e di risolutezza (“volò una vita intera che sarebbe potuta essere e non era stata. Una caramella al veleno che buttò giù malvolentieri”, p. 95). Lo scavo chirurgico nei sentimenti viene condotto da Naspini attraverso le pieghe discorso, e in questo si dispiega la sua maestria. Non c’è analisi introspettiva condotta apertamente, ma il netto fluire delle parole – attraverso cui si ricostruiscono le storie segrete dei personaggi. C’è qualcosa di toccante, ma ingenuo, nella volontà di Nives di lasciare un segno che attesti non solo il suo passaggio, ma anche la sua felicità trascorsa, la sua “favola bella, seppur triste” (p. 101) lanciata tra le case. Nel suo non rendersi conto della (bassa) levatura della persona con cui si sta confrontando.
Nel corso della lunghissima telefonata rivelatrice, emerge che l’amore mancato può condizionare i destini tanto quello vissuto. Forse però, dopo un lungo soffrire in silenzio, la confessione del proprio pensiero, la rivisitazione condivisa degli eventi – e la scoperta di quanto prima sfuggiva, può aiutare a far pace con gli “sgambetti” subiti dalla sorte, e arrivare a una visione più matura sugli eventi, a una coscienza più profonda di sé. Quella narrata da Naspini è una storia di spiriti inquieti e ritornanti (quello di Anteo che angoscia le nottate, quello di Rosaltea, soprattutto però quello del passato lontano ma non ancora sepolto). È anche però una storia di rivincite e nuovi inizi. È la storia di un trionfo del femminile sulle meschinerie di certi uomini, di riscoperta della propria superiorità emotiva, ma anche della propria capacità di ridare a se stessi un’altra possibilità.
Nives risulta alla lettura un’opera molto diversa da I Cariolanti: l’autore conferma così la propria abilità nello sperimentare forme e generi, e di riuscire in tutti ugualmente convincente.