Autore prolifico, editor e art director per diverse realtà editoriali, il grossetano Sacha Naspini è ora in libreria con “Nives” (E/O) che presenterà a Bagno Vignoni domenica 13 settembre alle ore 17 nell’ambito de I colori del Libro. Martino Baldi, bibliotecario alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, lo ha intervistato per noi.
Naspini, con Nives la troviamo ancora una volta a rufolare (per usare un verbo che sicuramente le piace) nel torbido, nel sotterraneo, che sia metaforico o letterale, delle vite dei suoi personaggi. Quel che c’è in superficie è così poco interessante, così falso? Cosa ci sta raccontando dell’esistenza?
Al contrario: nella superficie c’è tutto. In modo violento, banale, disperato. Si è depositato qualcosa e si è depositato così. È tutto vero; indicibilmente vero. Il taglio di capelli che porti (se ce li hai), il posto che scegli per fare le vacanze. Il modo di camminare, la camicia che stacchi dall’armadio per andare a fare l’aperitivo... Le idee politiche. La tua contingenza. Tutta la sfera superficiale di ciò che ti riguarda è un racconto, gronda roba. Ce ne stiamo qua con uno spritz a chiedere aiuto. Le unghie laccate con disegni che raffigurano draghi. I tatuaggi dal significato molto intenso. Racconti sensazionali e sfiancanti sulle nostre gesta lavorative, quelle sessuali. La musica che ascoltiamo e che nessuno capisce davvero a parte noi – i social ci rendono totali, spariamo opinioni come muli che cascano dal sesto piano. Poi, un giorno, è possibile che accada qualcosa. È probabile che la scacchiera su cui siamo edificati venga mossa da un colpo sotto al tavolo; i pezzi si spostano: come la prendi? Nel senso: stavi giocando una partita – la giochi da decenni – ma era un’altra cosa. Nives prova a raccontare quella roba là. Soprattutto in un momento dell’età che non accoglie enormi colpi di coda (i personaggi navigano verso i settanta). E se a un certo punto ti dicessero che i paletti fermi della tua esistenza sono una menzogna? Il motore (totem) della storia è una gallina che resta impallata sulla pubblicità di un detersivo.
Tunnel, sotterranei, passaggi segreti sembrano essere un leitmotiv anche della dinamica intertestuale, con personaggi e aneddoti che fanno capolino da un libro all’altro. Sbaglio o con le ultime opere sta costruendo tassello dopo tassello un suo universo-libro con mille botole che si aprono sullo stesso posto? Ambisce a essere il Bolaño toscano?
Sì, sta prendendo corpo un universo. È bello vedere un immaginario ancorato sull’occasione di un territorio (perché di quello si tratta: un’occasione) che viralizza un certo spunto per guardare il mondo. Nel mio caso è la Maremma, che paradossalmente c’entra e non c’entra: l’attitudine al vivere, un oculare preciso che dal piccolo cerca di raccontare il grande. Le dimensioni di Nives, dell’Ingrato, delle Case del malcontento, dei Cariolanti eccetera potrebbero essere trasportate per assurdo in un quartiere di Manhattan o all’Esquilino – con i dovuti accorgimenti per intonare la faccenda al luogo, la vocalità, il tempo, l’antropologia di tutto. Le corde emotive suonerebbero una nota simile, forse. Il dialogo umano. Insieme mi interessa tutta un’altra vista sul racconto contemporaneo, con velocità e occorrenze diverse (penso a Ossigeno). Ci sono in cantiere due romanzi che vanno su quel versante; i “titoli di servizio” sono questi: Errore 404 (sfiora luoghi di fantascienza) e La voce di Robert Wright (allucinazione e psicothriller sull’elaborazione di un lutto particolare).
In questo giacimento pressoché infinito di storie che sembra possedere, vado lontano dal vero se dico che alla base di ogni libro più che la voglia di raccontarne una piuttosto che un’altra c’è anche e forse soprattutto una sua sempre nuova sfida strutturale, la voglia di giocare ogni volta un gioco nuovo? Il romanzo corale intrecciato una volta, il racconto dello stesso evento fatto da più voci e prospettive poi, questa virtuosistica telefonata-libro stavolta...
C’è un mondo sconfinato già nella scelta del tempo verbale con cui decidi di dare corpo a una storia. Lo scrivere è là, con quell’immane valigione strapieno di strumenti per raccontare qualcosa. Mi sembra uno spreco abissale (e un rischio, ovvio) adagiarsi su una traiettoria. Sperimentare mi pare più onesto, a costo di scontentare qualche lettore. Gli spunti di genere, le voci, l’uso cardinale del sottotesto su cui si fonda il gesto di un romanzo... Ora, per esempio, sto cominciando a prendere di mira l’idea di un western contemporaneo. Come si dice in gergo: ho i tre “spicci” per farci qualcosa. Mi pare.