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Damon Galgut: lo scrittore

Autore: Susanna Nirenstein
Testata: La Repubblica
Data: 11 novembre 2008

Viaggiare è "un lancio in caduta libera", eccitazione, paura di morire, spazi vuoti dove i confini del mondo si piegano sotto un temporale e i fulmini sembrano "firme di Dio". È un'ossessione, e "nella storia di un'ossessione c'è sempre un solo personaggio, una sola trama. Io sto scrivendo di me solo, non conosco altro, e proprio per questa ragione ho sempre fallito in ogni amore". Torna Damon Galgut. Dopo Il buon dottore e L'impostore ambientati nel suo Sud-Africa così difficile, così incagliato in un inestricabile e fangoso postapartheid, eccolo di nuovo, come sempre lucidamente immerso nel dubbio, col suo linguaggio potente, evocativo eppure essenziale, levigato. Esce In una stanza sconosciuta, romanzo finalista al Man Booker Prize: sono tre racconti di viaggio in Grecia, Lesotho, Zimbabwe, Malawi, Tanzania, Nord Europa, India, percorsi in gran parte estremi, ma non solo per i loro paesaggi lunari o brulicanti come formicai, quanto per la dimensione solitaria che il protagonista, l'autobiografico sudafricano di nome Damon, vive, nonostante nello spostarsi cerchi proprio l'incontro con l'altro e con un sé capace di amare. Una peregrinazione tra memorie irrisolte resa dal riuscitissimo alternarsi della narrazione in prima e terza persona. I tre capitoli lo inchiodano in tre ruoli rappresentati dai titoli: "Il seguace", l'incontro-scontro con un tedesco con cui percorre una defatigante attraversata del Lesotho sperando in una reciproca seduzione e finendo invece in un conflitto di potere che lo vede perdente; "L'amante", una possibile storia d'amore con un giovane svizzero trovato in giro per lo Zimbabwe che si inceppa nella timidezza e nella formalità; infine "Il guardiano", una vacanza in India che dovrebbe servire a rimettere in carreggiata un'amica con tendenze psicopatiche e suicide che finisce male.

Mr Galgut, il romanzo è autobiografico. Cosa cercava in quei suoi viaggi radicali?
«Semplicemente non lo so. Non ho mai viaggiato con uno scopo preciso. Il mio girovagare era piuttosto guidato dall'infelicità — da un'incapacità a stare fermo a lungo. La chiami pure irrequietezza esistenziale».

Non crede che stesse anche fuggendo dal suo angoscioso Sud-Africa post-apartheid? Nel libro ci racconta anche come lei lì, per tanto tempo, non abbia avuto una casa e sia passato per anni da un'ospitalità all'altra. Come mai?
«Il modo in cui vivevo in quegli anni aveva molto a che fare con la mancanza di denaro. Volevo fare lo scrittore e non mi interessavano altri lavori. Così, senza soldi, mi spostavo da un amico all'altro. Ma no, non scappavo dal Sud-Africa. Vede, uno dei piaceri che mi ha dato scrivere questo libro era che non aveva niente a che fare con la politica politica. Penso che il viaggio sia uno dei pochi stati in cui la politica e i problemi sociali restano lontani: in un certo senso ti liberi dalla storia».

I titoli e i contenuti del romanzo, come forse anche i suoi libri precedenti, parlano dell'impossibilità di incontrarsi. E' così che vede l'umanità?
«Ogni sezione parla di un viaggio fatto in compagnia di persone diverse. Volevo raccontare la storia degli spostamenti ma anche come cambiassero le mie relazioni con i vari compagni, e il nome dei capitoli rifletteva la loro natura. Il potere, l'amore e la cura degli altri, i tre argomenti dei tre racconti, credo definiscano tutte le connessioni umane più significative».

In questa visione, qual è il potere, la funzione della letteratura e della scrittura per lei?
«Scrivere è stato l'unico filo conduttore costante della mia vita, fino all'ossessione. Il suo scopo è riflettere il mondo, ma, paradossalmente, te ne tiene anche fuori. L'unico soggetto che puoi davvero conoscere è te stesso. Uno racconta i propri segreti, si illude che l'universo gli si aprirà, ma l'universo in realtà sei tu e quel che conosci dell'esterno. E' un aspetto che mi è diventato sempre più chiaro durante questi viaggi».

I due amanti potenziali di questi racconti, le sono tanto vicini quanto impossibili da toccare. Il primo è quasi minaccioso, il secondo troppo delicato. Cos'è che l'ostacola nell'amare e l'essere amato?
«Non so rispondere. Suppongo che una sorta di codardia mi abbia impedito di parlare, di muovermi verso di loro. Un'incapacità a esprimere i miei sentimenti. Sono il solo a provare una cosa simile? Ma certamente ambedue le relazioni erano molto bizzarre, estreme. Penso di essermi auto-protetto».

Lei ha detto che il vero soggetto del libro è la memoria. In che senso?
«Volevo creare una sorta di "voce" della memoria nel romanzo. Ed è questo il motivo per cui ho scritto al presente e con un punteggiatura minima. Ed è anche la ragione di quel passare continuamente dalla prima alla terza persona. La memoria funziona esattamente così. Qualche volta torni al momento che stai ricordando, e l'"io" rivive quell'istante. Altre volte ti guardi da fuori, e allora diventi un lui che è un estraneo. Questo scorrere tra vicinanza e distanza, tra certezza e incertezza, è il modo in cui funziona la memoria. Con questo libro insomma volevo spogliare la vita fino alle sue qualità essenziali».