Si possono amare le masse con tutto se stesso e maltrattare la moglie con estrema violenza? Anche la cosa più insignificante può diventare la scintilla che innesca un’esplosione di rabbia unilaterale del marito: poco o troppo sale nel sambar con zucca, l’olio nella salsa di arachidi, il peperoncino verde invece di quello rosso nel pollo al curry, perfino un titolo sul giornale, anche se di quello la donna non può essere lontanamente responsabile, ammesso che lo sia delle scelte gastronomiche.
Meena è stata una moglie-serva, una “cosa”, un oggetto, una schiava senza diritti e libertà, intrappolata nello spazio di tre stanze con veranda dal quale non poteva permettersi di uscire, se non rispettando rigidissime regole imposte dal marito.
Non un povero ignorante, non un popolano senza cultura, ma un docente universitario a contratto, un intellettuale, un comunista, anzi un ” autentico maoista”, come teneva a precisare. Tante cose, tranne un uomo tollerante, pronto a rispettare la parità di genere e la dignità della moglie. In più, dannatamente manesco.
Lei è un’intellettuale, una giovane indiana evoluta, di origini tamil, oggi poco più che 35enne, scrittrice, poetessa, traduttrice, attivista dei diritti. Vive e lavora tra Londra e Chennai, città affacciata sul golfo del Bengala, nell’India orientale.
Un fenomeno diffuso in tutto il mondo
La casistica della violenza contro le donne tra le mura domestiche è preoccupante in tutto il mondo. Nel nostro Paese, se le denunce hanno segnato un calo nel periodo del lockdown, si è temuto che questa riduzione fosse dovuta alla maggiore difficoltà di sfuggire al controllo del partner violento, chiuso in casa dalle misure anti contagio.
Le autorità hanno perfino divulgato un codice convenzionale per le richieste telefoniche di aiuto. Basta dire semplicemente “mascherina 1522”, senza ulteriori spiegazioni, dopo aver chiamato uno dei centri antiviolenza, per attivare un intervento.
In India le cose vanno ancora peggio. Nel 2019, il rapporto di una fondazione internazionale l’ha classificata come lo Stato del mondo in cui le donne subiscono più prevaricazioni dagli uomini. Se questo vale per gli stupri e gli abusi sessuali, figurarsi in casa, dove vengono considerate né più né meno che proprietà dei loro compagni. Proprio quello ch’è accaduto a Meena, dopo che il sogno di sposarsi e andare a vivere con un intellettuale rivoluzionario si è trasformato in un incubo quotidiano.
Altro che passione e poesia
La passione, il calore, la poesia che il marito dedicava al concetto (astratto) della rivoluzione popolare non contemplava la sfera femminile e il rispetto della moglie. Per Meena solo percosse e botte, “per aggiustarla”, per correggere le sue imperfezioni, anche se “il compagno Lenin piange quando lui è costretto a picchiarla”. Un maschio-padrone maoista non frusta con uno scudiscio, ma col cavo del laptop (però i segni restano ugualmente impressi sulle braccia). Un intellettuale ferisce il cuore in mille modi più brucianti anche del mestolo bollente che, se gli capita tra le mani, preme dolorosamente sulla caviglia. La violenza coniugale non è un problema solo delle donne povere, è comune a tutte le classi sociali, sostiene Kandasamy, protagonista per quattro lunghi anni di quella che ha voluto raccontare sotto forma di autofiction. La vittima è una scrittrice, esattamente come lei, anzi, è lei.
Il marito perfetto, sposato in fretta, la porta a vivere in una città lontana. Molto presto, avvia la “correzione” della moglie, una ragazza bella, indipendente, di classe sociale agiata. Il matrimonio, dice Mena, diventa un “campo di rieducazione”. Lui è il direttore, il carceriere, il kapò. Lei, il soggetto da sottoporre a riabilitazione, obbligata a imparare tutto dal marito, un “crociato del comunismo” con l’insospettabile vocazione a trasformarsi in un aguzzino.
Una società maschilista
La moglie non può avere opinioni, idee, ha solo difetti da correggere. Sono tante le cose che deve imparare. Che andare nella drogheria vicina, senza uno scialle che le copra testa e spalle, può ferire il senso del decoro di quanti la incontrano. Che il marito non può tenerla per mano in pubblico, per non violare i costumi sociali. Che non l’è consentito camminare in modo da suggerire che il suo corpo possa essere un oggetto di desiderio per gli uomini. E non importa che dei passanti sconosciuti si debbano sentire autorizzati a riservarle palpatine, fischi, inviti sussurrati, perché Meena è una ragazza attraente anche senza rossetto e trucco, che il compagno-padrone non le permette di concedersi.
Viene fuori un quadro della società indiana a tinte scurissime, machista e irriguardoso nei confronti di quello che non viene considerato sesso debole, ma un sottogenere inferiore. E se per strada le donne sono di fatto una proprietà pubblica maschile, questo pesa di più all’interno della famiglia. La moglie di un comunista può essere trattata con rispetto davanti ai compagni e a porte chiuse presa a schiaffi e umiliata senza motivo.
Meena Kandasamy compie un lungo viaggio in se stessa, nel suo passato, nel drammatico inferno casalingo in cui il marito ha trasformato la sua vita. Certi particolari sono tanto violenti da sembrare incredibili, ma non li risparmia nell’auto narrazione, perché un racconto riesce a insegnare molto più di un saggio sulle dinamiche familiari e sulla subordinazione delle donne. Alla domanda: “è tutto vero?”, non risponde. Alla domanda: “è tutto inventato?” non risponde. Raccontare in forma di romanzo non solo può essere catartico, evita un sacco di complicazioni giudiziarie.