Quando seppellì anche l’ultimo genitore rimasto in vita, mio padre aveva quarantasette anni. Mi faceva strano definirlo orfano. Questa parola porta alla mente, infatti, i piccoli eroi dickensiani: personaggi miserabili e scapestrati, con il moccio al naso e i graffi sulle ginocchia. “Orfano” fa pensare al destino dei bambini soli al mondo. C’è forse un’età giusta per diventare tali? Vera – trentasei anni, single, impiegata in un pub – si pone le mie stesse domande quando un tragico incidente stradale, in un colpo solo, la priva di mamma e padre. Al funerale è sembrata a tutti equilibrata. Ma chiamata a radunare le cose dei cari scomparsi, nella casa vuota si lascia andare allo sconforto: la sua sindrome d’abbandono genera un prodigio inspiegabile. Al risveglio trova i genitori al solito posto, in cucina. Chiacchierano, qualche volta bisticciano, la punzecchiano.
Armando è un ragioniere taciturno e accondiscendente, di quelli che danno sempre ragione alla partner e capiscono ogni battuta a scoppio ritardato; Matilde, al contrario, è un’insegnante d’italiano in pensione che ha fatto del sarcasmo il proprio marchio. Non nuovo ai miracoli, Fabio Bartolomei – presenza fissa sul blog, di libro in libro – ci propone una convivenza buffa e spettrale che sembra sbucata da una sitcom americana. Qual è la questione irrisolta dei fantasmi, che come se nulla fosse continuano a mettere i pasti in tavola, fare ramanzine all’unica figlia, guardare i talk in TV?
Dubito che al mondo esista una persona più diversa e potenzialmente più distante da mia madre, e invece da che ho memoria sono sempre stati un incastro perfetto. Amore convesso lui, amore concavo lei. Certo non una coppia da sogno, di quelle che tutti invidiano, più che altro sono sempre stati, come dire… un duo. Rodato, affidabile, sontuosamente prevedibile.
Purtroppo arriva sempre il momento in cui i nostri genitori ci lasciano. Così come puntualmente, intorno ai diciannove anni, arriva il momento in cui a lasciarli siamo noi. Il lavoro, l’università da fuori sede, l’amore. Cosa fanno i genitori una volta finita la loro missione – ossia educare i figli? Se lo chiede proprio Vera.
Immatura e pigra, costretta a crescere a forza, scruta con sospetto e tenerezza quei consanguinei che sembrano vivere letteralmente per lei. Al pari del genio della lampada, Armando e Matilde sono in attesa dei richieste della figlia – all’improvviso, il loro boss – e in sua assenza restano immobili al loro posto con sguardi vacui, al punto da non riuscire neanche ad accudire un trovatello senza la presenza della protagonista. In fondo è stata lei ad evocarli. All’inizio Vera fa da cuscinetto, dorme nel lettone, li chiama al telefono per paura che scompaiano quando va al supermercato, ma presto l’apprensione cede il passo al senso di colpa. Può costringere a vivere nel limbo gli estinti, e soprattutto sé stessa? La vita, così come la morte, non deve andare avanti?
C’è stato un momento ben preciso in cui ho smesso di parlare con loro. Un momento in cui li ho sentiti vecchi, distanti, incapaci di capire i miei tormenti di adolescente. […] Loro invece mi guardavano, mi sorridevano, mi sfioravano, e dicevano banalità proprio per farmi capire che tutto ciò che c’era da sapere era in quegli sguardi e in quella vicinanza. E negli esempi ripetuti, giorno dopo giorno, affinché ci mettessi del mio per apprendere come ci si nutre, come ci si difende, come si sopravvive.
Commedia fresca, veritiera e dolce-amara, questo romanzo ha un pregio che è anche un difetto. Si legge troppo in fretta, per via della sua brevità. E c’è poco spazio per approfondire i comprimari nonché per sincerarsi dei piani futuri dell'autore; del disegno complessivo. Nel risvolto di copertina, infatti, si legge che questo dovrebbe essere il primo tassello di una tetralogia dedicata alla famiglia.
Alle prese con un convincente punto di vista femminile, divertente ma senza esagerare, il buon Bartolomei ci regala riflessioni che durano molto più della lettura in sé. La sua nuova storia – un racconto lungo – non deluderà i fan di lunga data, ma lascerà un vuoto nel cuore per via delle poche pagine: si spera vivamente che non passerà troppo tra un romanzo e l’altro. Perché del magico mondo di Bartolomei non ne avrò mai abbastanza.
Morti ma senza esagerare insegna che non si smette di essere genitori né figli. E trova una risoluzione soprannaturale agli abbracci non dati, alle parole non dette, ai favori non resi. Chi non vorrebbe una seconda occasione per pranzare con i propri cari: magari per osservare i loro gesti, carpire i loro segreti in cucina e impararli? I genitori non se ne vanno mai per davvero. Resta il loro lascito morale. Restano i loro echi. Come gli strascichi del profumo delle lasagne vegetariane, deliziosi e ostinati, all’indomani del pranzo della domenica.