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La misura del reale

La misura del reale, una riflessione di Giovanna Bentivoglio, editor per la narrativa italiana delle Edizioni E/O

“Si possono scrivere romanzi anche a partire dalla propria esperienza personale, anzi, in qualche modo è inevitabile far confluire nel racconto il riverbero del proprio vissuto, per questo l’autobiografia non è una cosa sbagliata in sé: purché se ne sappia fare un romanzo”. Questo diceva, tra le altre cose, Massimo Carlotto parlando del suo ultimo La terra della mia anima, un romanzo intessuto di memoria che ripercorre un pezzo significativo di storia italiana, tracciandone un profilo eloquente e rivelatore di una realtà sociale, ambientale, antropologica che scorre sotto la cronaca e che il giornalismo “d’inchiesta” ha omesso di raccontare semplicemente perché non lo si pratica più. Il romanzo nasce dal desiderio, scaturito da un rapporto forte di amicizia maturato nel corso di un’esperienza condivisa, di tener fede alla memoria di un uomo singolare, un amico, uno che ha tenuto fede fino all’ultimo giorno solo a se stesso.
Il giorno precedente Concita de Gregorio aveva presentato nell’ambito della Fiera della piccola e media editoria l’ultimo romanzo di Elena Ferrante, La figlia oscura e ne aveva parlato come di un gesto audace di verità sul controverso rapporto che lega madri e figlie in una storia di circolare, ricorrente, speculare ambivalenza.
La lettura di questi due libri, ultimi usciti per i tipi delle Edizioni E/O, i cui autori rappresentano in certo modo nei rispettivi generi, ma sarebbe più giusto dire bene al di là dei cosiddetti generi, gli alfieri più significativi della linea editoriale e della fisionomia culturale della casa editrice, permette di chiarire meglio il senso e soprattutto il contributo che questi libri apportano e che supera il puro apprezzamento della storia e la sua capacità di emozionare e coinvolgere il lettore e che per taglio contenuti e intenti travalicano il valore stretto della qualità letteraria della prosa.
Due mondi e due approcci distanti si potrebbe dire al contempo entrambi estremi e inconciliabili: le storie di una delinquenza di base, generata dal disagio e dalla marginalità o dal rifiuto all’integrazione, nella sua evoluzione attraverso gli ultimi trent’anni, l’esperienza del carcere il mondo concentrazionario, chiuso alienante della reclusione nei romanzi di Carlotto; il racconto di un sistema di umori, sentimenti, idiosincrasie, sensi di colpa e forze istintuali in conflitto che innervano nei romanzi di Elena Ferrante i vincoli segreti, oscuri che intossicano ma anche contribuiscono a fortificare i rapporti tra madri e figli, aprendo nuove, forse più scabre ma anche più reali e autentiche prospettive di relazioni affettive e umane.
Ciò che sostiene e conferisce robustezza, temperatura e materia densa e incisiva in questi due autori che indagano mondi diversi e non contigui, tocca la ragion d’essere stessa della narrativa contemporanea, o se si vuole ciò che costituisce la missione del romanzo e ne legittima il ruolo: raccontare il tempo presente nelle sue pieghe, e piaghe, meno evidenti. Una materia che sta sotto ciò che la televisione, la stampa, la politica si incaricano di rappresentare avvolgendo la cronaca dei nostri anni, gli infiniti talk show conditi di analisi sociologiche, psicologiche e antropologiche in un viluppo grondante la retorica dei buoni sentimenti, del politicamente corretto, dai quali emerge un paese emotivo, vittimistico, assediato dalle ingiustizie e dal disagio in cui madri telegeniche piangono e fanno piangere ma nessuno aiuta a spiegare le atrocità di morti infantili catalogate come raptus insondabili, o il miracolo economico di un Nord-Est favoleggiato come l’anima produttiva, alacre e fiorente del paese occultando la realtà ben diversa dei meccanismi che stanno alla base di quell’apparente miracolo con la sua pesante zavorra di illeciti, complicità e alleanze di malaffare e mafie capillarmente diffuse e operanti a pieno regime.
In questo quadro i libri di Carlotto e di Ferrante come esploratori di vedetta su avamposti e fronti diversi, rompono un tabù, spezzano la superficie uniforme e convenuta dell’opinione corrente, mandano per aria una realtà omologata e somministrata in dosi uniformi e massicce e mostrano una faccia diversa della vita reale,contundente, difficile da metabolizzare, controversa e interlocutoria che il lettore può trovare spinosa, dura, ma che riconosce come una dimensione presente, che lo tocca e in certo modo gli appartiene perché appartiene al mondo attuale scorre sotto le parole e dietro le apparenze e mentre legge non lo blandisce, non gli sorride, non lo intrattiene piacevolmente, ma lo interroga, lo scuote, dice qualcosa che mostra la misura del reale.