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I Beatles in India - Musica e guru così l'Oriente battezzò il pop

Autore: Federico Rampini
Testata: La Domenica di Repubblica
Data: 20 maggio 2007

«L'ultima volta che il mondo s'interessò al mio Paese», ricorda la giornalista indiana Mira Kamdar, «fu all'epoca del pellegrinaggio dei Beatles». Oggi riscopriamo l'India come nuova potenza dell' economia globale, ricca di giovani talenti dell'informatica e delle biotecnologie, culla di una nouvelle vague del cinema e della letteratura. Quarant'anni fa l'Occidente si lasciava conquistare da una "moda indiana" di segno diverso. Fu un viaggio del quartetto pop più celebre della storia a cambiare la percezione di quel Paese. Intere generazioni s'innamorarono di un'India immaginaria, partirono sulle rive del Gange in cerca di nuovi valori e in fuga dal progresso che le disgustava. In una specie di ipnosi collettiva crollarono stereotipi ancestrali, svanì dalle menti dei giovani europei e americani quell'altra India che appena pochi anni prima Pier Paolo Pasolini aveva definito «la nazione senza speranza».

Il 1968 è l'anno più tragico nella guerra del Vietnam, lo stesso in cui muoiono assassinati Martin Luther King e Bob Kennedy, le rivolte dei neri sconvolgono intere città americane, a Parigi nel Quartiere latino studenti e polizia si scontrano sulle barricate in fiamme, Breznev manda i carri armati sovietici a schiacciare nel sangue la Primavera democratica di Praga. Anche in India - quella vera - sono tempi duri: il dirigismo di Indira Gandhi non riesce a impedire le carestie di massa, crescono i rischi di guerra con il Pakistan. Con una scelta di tempi che oggi appare curiosa, è proprio dal febbraio all'aprile del '68 che i Beatles abbracciano l'India. Reduci dai successi mondiali di Revolver, Magical Mistery Tour e Sgt. Pepper's, si trasferiscono a meditare in un ashram, rilanciando tra i giovani del mondo intero l'antica tradizione del viaggio iniziatico a Oriente.

Quel che accade in quei tre mesi non assomiglia esattamente a un isolamento da eremiti. Assieme ai Beatles infatti si trasferisce un variopinto caravanserraglio di loro amici che sono altrettante star dell'epoca: il cantante folk Donovan, Mike Love dei Beach Boys, l'attrice Mia Farrow con la sorella Prudence (a cui John Lennon dedicherà una celebre canzone), la top model Marisa Berenson, più mogli e amanti e un esercito di giornalisti e fotografi da cui il pianeta dei teen-agers attende con trepidazione la cronaca dell'"esilio indiano".

La spedizione in India ha un antefatto e un abile regista. Il guru indiano Maharishi Mahesh Yogi si è già conquistato un "mercato" sulla West Coast californiana, dove alcune migliaia di adepti seguono i suoi insegnamenti. Nell'agosto 1967 Maharishi sbarca a Londra, dove affitta un salone dell'hotel Hilton per impartire lezioni di meditazione trascendentale: una semplice tecnica di concentrazione per astrarsi dal "rumore di fondo" del mondo esterno, affrancarsi dalle sirene del materialismo, raggiungere la pace interiore. I Beatles assistono alla sua performance dell'Hilton, poi, insieme al solista dei Rolling Stones Mick Jagger, seguono Maharishi nel Galles per un ritiro di dieci giorni, a padroneggiare le tecniche del silenzio contemplativo. E’ il colpo di fulmine. John Lennon e George Harrison annunciano che non faranno più uso di droghe, salvati dalla sapienza indiana. Harrison entra nella sua fase mistica, da cui non uscirà più. Lennon, il più "politico" dei Fab Four, accarezza il sogno di usare l'ascetismo indiano per promuovere la pace mondiale. Paul è attratto da ogni esperienza eclettica che può arricchire il suo repertorio musicale. Il guru promette miracoli: seguendo i suoi insegnamenti i Beatles possono arricchire la propria creatività artistica e al tempo stesso aiutare i giovani di tutto il mondo ad «attingere alle sorgenti della pura energia» per liberarsi dell'infelicità. Il passaggio obbligato è un lungo soggiorno all'ashram del Maharishi a Rishikesh, cittadina sacra situata dove il fiume Gange scende a valle dalle vette dell'Himalaya.

L'infatuazione dei Beatles non è una novità assoluta. Prima di loro altri europei e americani hanno subito il fascino della spiritualità orientale. I poeti del romanticismo tedesco nell'Ottocento hanno esaltato l' India come la culla originaria di tutte le religioni. Hermann Hesse con Siddharta ha esplorato il buddismo e ha scritto il più bel romanzo sul viaggio iniziatico a Oriente. Il pellegrinaggio indiano ha attirato un "poeta maledetto" della beat generation di San Francisco, Allen Ginsberg, che ha vissuto sulle rive del Gange nel 1962. Le scuole zen sono apparse in California dai primi anni Sessanta. Lo yoga ha fatto breccia a Berkeley nella prima contestazione studentesca, il movimento Free Speech del 1964.

Ma si tratta di sperimentazioni d'élite. Nessuno fra i precursori della moda indiana può sprigionare una potenza mediatica lontanamente paragonabile ai Beatles. Il quartetto venuto da Liverpool ha spezzato l'egemonia americana sulla musica leggera del dopoguerra. I loro dischi censurati vanno a ruba tra i giovani sovietici come simboli di liberazione. John Lennon ha potuto permettersi di dichiarare che i Beatles sono più popolari di Gesù Cristo e non è stato neppure scomunicato. Anzi, la regina Elisabetta, che formalmente è anche alla testa della Chiesa anglicana, li ha insigniti del titolo di baronetti. Portare i Beatles in India è il più grande colpo per impressionare l'Occidente dai tempi della "marcia del sale" e degli scioperi della fame con cui Gandhi mise in ginocchio l’impero britannico. Il geniale Maharishi - che in patria molti considerano un ciarlatano - sembra possedere un tocco magico. Forse anche il tocco di Re Mida. Una sua aspirazione è farsi assegnare una percentuale sulle royalties dei dischi dei Beatles, per finanziare il suo "Movimento di rigenerazione spirituale".

Maharishi si circonda di collaboratori che gestiscono le finanze del suo impero e curano l'immagine del Movimento. Essenziale è tenere alla larga i giornalisti indiani, disincantati e capaci di domande troppo indiscrete. Ma anche la stampa occidentale va tenuta sotto controllo. Quando i Beatles sbarcano a Rishikesh, nel febbraio '68, la cittadina sul Gange viene blindata da cordoni di fedeli del guru con la consegna di tenere alla larga tutti i reporter. Solo pochi giornalisti eludono la sorveglianza. Uno è Lewis Lapham, allora giovane star del new journalism. Lapham, che nel '68 è inviato speciale del Saturday Evening Post, riesce a introdursi nell'ashram e assiste di persona al ritiro spirituale dei Beatles. Quarant'anni dopo, ormai Grande Vecchio dell'intellighenzia liberal e direttore dell'autorevole rivista Harper's, Lapham rivela quell'esperienza nel libro With the Beatles (tradotto da poco in italiano con il titolo I Beatles in India, edizioni e/o).

Protetti nella loro privacy dal vigilante guru indiano, racconta Lapham, i Beatles stavano quasi sempre per conto loro, a comporre canzoni o chiusi in seminari privati con il Maharishi. Avevano avuto le uniche case con acqua corrente e comfort quasi occidentali. Solo a cena era possibile incontrarli. «George», scrive Lapham, «era quello più impegnato nella teoria e nella pratica della trascendenza. Lasciò tutti di stucco rivelando che il suo mantra era in inglese. Nessuno aveva mai parlato del proprio mantra, si supponeva che il farlo l'avrebbe privato di senso e di potere, ma tutti davano per scontato che il mantra di ognuno consistesse in un paio di sillabe in misterioso sanscrito. Niente affatto, disse Harrison, il suo mantra compariva in una canzone di Lennon, I Am the Walrus ("Io sono il tricheco"). Con gli occhiali biancolatte e il colorito pallido, John dava l' idea dell' intellettuale concentratissimo ed enigmatico, impegnato a setacciare con cura i testi della saggezza del Maharishi alla ricerca di un qualcosa che potesse riconoscere come verità. Non era sicurissimo che il Maharishi fosse più saggio di Lewis Carroll, ma sapeva che riuscendo a trovare dentro di sé un paese delle meraviglie interiore, al riparo dello spazio e del tempo, niente potrà più scuotere il mio mondo. Ringo e Paul non parlavano granché della meditazione. Sì, avevano ottenuto qualche risultato. No, non lo facevano controvoglia, ma dal loro atteggiamento si capiva che la faccenda riguardava soprattutto George, e se lui voleva andare in India, ok, bene, andiamo tutti in India. Ringo sentiva la mancanza dei figli e dei suoi nove gatti e sosteneva che avrebbe potuto mettersi altrettanto bene nella posizione del loto anche a Liverpool». McCartney non gradiva l'atteggiamento adulatorio del Maharishi nei confronti del gruppo e della sua musica («la storia che siamo i figli di Dio e i salvatori del genere umano») né dava molto credito alla grandiosa metafisica dello yogi: «Mi trovo un po' perso ai livelli superiori».

Dopo il primo mese la magia comincia a dissolversi. Mia Farrow sparisce di colpo dal ritiro, sembra dopo aver subito avances sessuali troppo insistenti da parte del guru. Circolano voci che il Maharishi abbia insidiato anche un'infermiera australiana e una studentessa californiana. I Beatles vengono assaliti da un timore: se la stampa inglese si impadronisce di quelle storie li prenderà in giro senza pietà, trattandoli come dei creduloni vittime di un colossale raggiro. Ringo è il primo a rompere i ranghi, con eleganza: definisce quelle accuse «pettegolezzi senza senso» ma ne approfitta per scappare dal giardino dell'Eden. E’ il segnale del rompete le righe, gli altri lo seguono a ruota. «Ancora venti mesi», conclude Lapham, «e i Beatles avrebbero smesso di esistere come gruppo. La cocaina avrebbe preso il posto della marijuana sui mercati della trascendenza. Le partenze per i magical mistery tour sarebbero state gestite dall'esercito americano, che per i successivi sei anni avrebbe spedito altri trentacinquemila giovani a morire in Vietnam. I Beatles però erano scesi dalla montagna con le trenta canzoni che compongono il White Album». E l'immagine dell'India in Occidente conservò a lungo gli echi armoniosi e languidi del sitar di George Harrison: una melodia di una dolcezza infinita.