NOIR. Dalla crisi al conflitto
Autore: Massimo Carlotto
Testata: Il Manifesto
Data: 25 maggio 2011
La prima cosa che mi è venuta in mente dopo aver letto lo scambio di opinioni a proposito del noir sul Manifesto del 17 maggio è un consiglio: «Crepate tutti » Consiglio letterario s'intende, dato che è il titolo di un gran bel noir, pubblicato da Playground, firmato dal francese Nicolas Jones-Gorlin. All'apparenza sembra la solita storia di sbirri fasci che si sentono legittimati ad andare oltre la legge e a sistemare la spazzatura araba delle banlieue, ma le vittime non ci stanno a farsi massacrare e scoppia una rivolta coi fiocchi. Politica, sociale, religiosa, sessuale. Da tempo non leggevo un romanzo così lucido che, finalmente, trasforma il noir da letteratura della crisi a letteratura del conflitto. Finora ci siamo accontentati di raccontare le trasformazioni criminali prodotte dalla globalizzazione dell'economia, i nuovi mercati illegali, il ruolo strategico della politica nei meccanismi criminali. È stata, ed è tuttora, una fase importante in cui la letteratura di genere ha tentato (con discreto successo) di colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del giornalismo investigativo e di costruire le trame su realtà negate. Romanzi veri e propri e non inchieste travestite che hanno saputo raccontare la crisi, appunto, di cui il crimine si nutre. Senza andare a disturbare la situazione internazionale, basta dare un'occhiata distratta a quella nazionale per rendersi conto quanto il crimine si sia infiltrato in ogni aspetto della nostra società. Possiamo tranquillamente definirla criminogena. Crimine e forme di difesa si sviluppano in una spirale senza fine. Non c'è soluzione. Con questa società. Un pentolone di idee Convinti che un altro mondo è possibile, nel frattempo continuiamo a scrivere e a leggere romanzi. Come sempre i dibattiti pro o contro si alimentano a ogni piè sospinto. E ognuno afferma giustamente la propria opinione. Il problema è che il genere italiano è stato per lungo tempo un pentolone al cui interno sobbollivano fermenti, intelligenze, idee e proposte molto diverse tra loro. Poi quando il pentolone è scoppiato, nessuno si è preso la briga di mettere ordine e si è scelto di definire tutto con la parola più corta: noir. Un tempo si diceva «grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». Non ne sono più così convinto. Si sono dette e si continuano a dire molte banalità ma i detrattori del genere hanno ragione da vendere su una cosa: il cosiddetto noir non è affatto l'unica letteratura in grado di raccontare il reale. Possiamo affermare che forse è quella che si è impegnata di più, ma la letteratura più di generi è fatta di contenuti (oltre che di un sacco di altre cose, ovviamente). Giusto per chiarezza vanno annunciate le avvenute esequie del romanzo poliziesco classico, quello alla Poe e alla Christie per intenderci, assassinato dalla vile televisione. Nato negli anni Quaranta dell'Ottocento aveva incontrato un immediato successo per l'indubbia capacità di reificare l'ansia della morte. Delle quattro fondamentali domande su cui si fonda il genere: chi, come, quando e perché, rispondeva solo alle prime tre dato che il delitto era sempre e soltanto un gesto individuale, senza il minimo connotato sociale. Col tempo e un'adeguata dose di complessità è diventato in grado di reificare l'ansia nel suo senso più ampio (anche sociale), esercitando un forte potere consolatorio e la televisione se l'è pappato in un sol boccone. Non c'è giorno, o meglio non c'è ora che la televisione non ci propini una trasmissione sul delitto del momento. Va sottolineato che non c'è mai stato in Italia un consumo così alto di storie criminali. Fatti di sangue scelti ad arte per l'alto livello di morbosità o di mistero che li caratterizza. In un paese dove la corruzione è diventata una piaga e la politica è crimine creativo, riproporre ossessivamente il delitto di una ragazzina maturato in una famiglia contadina del sud o quello di una donna, madre di famiglia e moglie di un militare di
professione un po' più a nord, non ha nessun senso collettivo. La macchina mediatica è ormai così potente da riuscire a influenzare l'operato di magistratura e inquirenti nel dettare i tempi delle indagini che si dilatano all'infinito per nutrire le varie trasmissioni, regno incontrastato degli «esperti». L'obiettivo (perfettamente riuscito) è incollare al piccolo schermo milioni di italiani, armati di telecomando, che di volta in volta rivestono i panni del poliziotto, del giudice, del medico legale, del cane molecolare... Se è banale affermare che la situazione del paese è disastrosa forse lo è meno ribadire che le persone vivono sempre di più in una sorta di solitudine, resa meno dura dagli schermi del televisore e del pc. L'incapacità di vivere e risolvere i problemi collettivamente porta a rifugiarsi in un individualismo doppiamente perdente perché il disagio non viene trasformato in conflitto. L'oscenità del potere genera uno sconcerto diffuso, la macelleria sociale sviluppa l'incertezza per il futuro e la necessità della distrazione diventa strategica. E comunque sia ben chiaro che abituare un paese all'idea che i delitti si commettono in famiglia o scaturiscono da torbide relazioni adulterine, serve a distogliere l'attenzione dal crimine, quello vero perché raccontare che una struttura «base» della n'drangheta in una zona della Lombardia è formata da 200, 300 affiliati magari suscita domande che pretendono risposte... Anche il modo di raccontare la criminalità organizzata e mafiosa è perverso. La cronaca giornalistica arriva solo dopo i blitz e le manette. Ma «dopo» serve a poco, pochissimo. La relazione tra attività mafiosa e territori deve essere analizzata prima perché solo in quel momento diventa informazione utile. E politica. Come sostiene Hari Seldon (sì, proprio lui) in Minzulpop, saggio illuminante e fondamentale, «È la televisione il territorio che il potere punta a tenere sotto stretto controllo, lo strumento di orientamento di massa ritenuto decisivo per acquisire o mantenere il consenso» (Nutrimenti editore). E non si riferisce al pianeta Trantor. Ci stanno manovrando, depistando con metodo. E il delitto, il giallo, il noir, chiamatelo come volete, è diventato uno strumento di eccellenza per il rincoglionimento di massa perché non è possibile evitarlo dato che ha praticamente invaso ogni contenitore. Questo lo hanno capito perfettamente i lettori di noir d'inchiesta, che formano vere e proprie comunità e che consigliano gli autori di riferimento a indagare e scrivere romanzi su determinati temi. Ma anche questo, a ben vedere, è un uso consolatorio della letteratura di genere. La frustrazione e la consapevolezza del diritto negato a una corretta informazione, in un paese che da sempre ha un rapporto perverso con la verità, crea la necessità di avere a disposizione uno strumento che svela ciò che è proibito. In cerca di redenzione Il ruolo che non può non essere riconosciuto al noir d'inchiesta è quello di essere anticipatore della realtà per il semplice motivo che si pone il problema di rispondere alla quarta domanda del genere: perché? Mi limito a citare il romanzo Perdas de Fogu, fortemente voluto da cittadini che vivevano nei pressi del poligono del Salto di Quirra. Ora c'è un'inchiesta, vengono riesumate le salme dei pastori morti di leucemia, un'improvvisa volontà di chiudere il capitolo delle sperimentazioni militari in Sardegna attraversa il mondo politico quando prima, invece. Questo romanzo è diventato il motore di un'inarrestabile evidenza del problema «poligono». È la qualità del crimine che oggi è al centro della produzione più interessante. Rispondere al quesito «perché» obbliga a una stretta relazione con la realtà, significa appropriarsi degli strumenti del miglior giornalismo investigativo, indagare come un segugio e poi miscelare verità e finzione nella forma romanzo.
Anche se è in grado di raccontare quello che accadrà il noir d'inchiesta ha il limite di rimanere confinato nella descrizione della crisi. Per carità, meglio di tanta fuffa che continua a raccontarci che il crimine non paga, ma credo sia arrivato il momento di affrontare un nodo culturale mai sufficientemente affrontato nel genere: la redenzione. Che non significa solo liberazione dal peccato ma dalla tirannide, da una condizione di degrado morale. Esattamente quella che stiamo vivendo oggi in quest'Italia. Ma non ci può essere redenzione senza conflitto. Con il potere, con la criminalità, con il lettore. Questo è un futuro possibile per la solita minoranza della letteratura italiana. Spero sia un futuro necessario per tutti noi.