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Israele Palestina. Intervista a Bruno Montesano

Autore: Elisabetta Michielin
Testata: Pulp Libri
Data: 17 gennaio 2025
URL: https://www.pulplibri.it/israele-palestina-intervista-a-bruno-montesano/

Fra tutti i libri usciti in Italia dopo la guerra aperta cominciata con il 7 ottobre Israele Palestina. Oltre i nazionalismi pubblicato dalla casa editrice E/O nella collana ‘La piccola biblioteca morale’ diretta da Goffredo Fofi è sicuramente uno dei più interessanti. Raccoglie gli interventi diversificati di 10 autori per la cura di Bruno Montesano dottorando in Mutamento sociale e politico presso le Università di Torino e Firenze. Suoi interventi e articoli sono pubblicati da ‘Il Manfesto’, 'Gli Asini’ ed altri quotidiani e riviste. Lo abbiamo intervistato.

Il conflitto fra Israele e Palestina ha da sempre il potere di far schierare in modo parossistico in due ‘partiti’ contrapposti. Perché hai deciso, dopo il 7 ottobre, di curare una antologia di brevi ma densi testi sulla questione. Come hai scelto gli autori e i temi?

Bruno Montesano: Goffredo Fofi mi ha chiesto di curare una raccolta nel dicembre 2024. Insoddisfatto del dibattito pubblico italiano e della discussione a sinistra, ho pensato così di raccogliere quelli che mi sembravano i migliori interventi sul tema usciti sulla nostra stampa e su quella internazionale a cui ho avuto accesso. A questo ho aggiunto alcuni interventi che ho chiesto a persone di cui mi eran piaciute delle cose che avevano scritto. Come dice il titolo, lo spirito del libro è l’antinazionalismo e lo scandalo per la disumanizzazione dei palestinesi che passava nella stampa italiana – peggiore di quella anglofona. Di questo parlano gli interventi della scrittrice palestinese Hala Alyan, così come quello della direttrice di Jewish Currents Arielle Angel ma anche di Luigi Manconi.

Nella tua introduzione al libro scrivi che per uscire dall’impasse della guerra infinita bisogna pensare al superamento dello Stato nazione, la cosa che sembra più impossibile stante l’attuale situazione. Su quali soggetti politici e sociali pensi si potrebbe contare? Come pensi un possibile processo di riconciliazione?

BM: La discussione sullo stato binazionale è stata spesso relegata a una contrapposizione tra “utopia irrealistica” e la presunta concretezza della partizione in due Stati. Questa prospettiva emerge anche nelle analisi di Judah Magnes, primo rettore della Hebrew University e fondatore del gruppo Brit Shalom, insieme a Hans Kohn e Gershom Scholem, con l’adesione successiva di Martin Buber. Negli anni più recenti, intellettuali come Tony Judt, Edward Said e Judith Butler si sono espressi a favore di questa idea. Edward Said, in particolare, contribuì a fondare, con Moustafa Barghouti, l’Iniziativa Nazionale Palestinese, un partito nato per contrastare il duopolio politico di Hamas e Fatah. Recentemente, lo stesso Barghouti ha dichiarato in un’intervista a El País, citando Daniel Barenboim: “Sometimes the impossible is easier than the difficult” (“A volte l’impossibile è più facile del difficile”). È quindi necessario uno Stato che garantisca pari diritti sia ai palestinesi che agli ebrei che vivono in quella terra.

La soluzione dei due Stati non solo appare sempre più impraticabile a causa dell’espansione delle colonie israeliane, ma perpetuerebbe la tensione e la violenza reciproca. Uno Stato unico, invece, permetterebbe di superare il principio etnico, adottando una visione egualitaria e universalista. Ciò che oggi può sembrare impossibile potrebbe, paradossalmente, rivelarsi l’unica soluzione. Certo, un cambiamento di tale portata richiede tempo e soggetti politici in grado di portarne il peso. Il processo di riconciliazione dovrebbe prevedere misure di riparazione e il riconoscimento dei torti subiti, creando così le basi per un nuovo equilibrio democratico. Sul tema, il libro di Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia (Feltrinelli), offre spunti di riflessione preziosi.

Attualmente, l’opposizione alla guerra e alla politica di Netanyahu proviene in gran parte dalla destra israeliana. Sono pochissimi i gruppi che si dichiarano apertamente contrari al massacro di Gaza e favorevoli all’eguaglianza tra ebrei israeliani e palestinesi. Nel libro che ho curato, Sarah Parenzo affronta il tema della sinistra di fede: una sinistra che trae le sue radici dalla tradizione ebraico-religiosa, ma che si impegna a disarticolare il legame tra sovranità e libertà ebraica, per promuovere una prospettiva di convivenza e giustizia con i palestinesi.

L’altro punto che metti in rilievo che mi pare molto importante è sulle caratteristiche proprie del colonialismo israeliano. Dove è la sua diversità?

BM: Ci sono diversi tipi di colonialismo. Nel caso di Israele, si parla di colonialismo di insediamento, ovvero un tipo di colonialismo che non mira principalmente all’estrazione di risorse o allo sfruttamento della popolazione locale, ma piuttosto alla creazione di una nuova società e sovranità, in cui una popolazione si sostituisce a quella autoctona. Questa analisi ha iniziato a circolare dagli anni ’60 e oggi è piuttosto diffusa. Un esempio significativo è il libro di Rashid Khalidi, The One-Hundred Years’ War on Palestine, che verrà tradotto in italiano da Laterza. Ritengo che questa prospettiva sia valida, ma anche parziale.

Se è vero che i coloni europei in America erano spesso rifugiati e migranti, il caso della Palestina presenta specificità uniche. Gli ebrei, quasi per definizione, non avevano una patria fino alla nascita di Israele, e il loro nazionalismo – simile a quello ottocentesco di altri gruppi culturali e religiosi discriminati – non era rivolto a una terra in cui risiedessero già stabilmente. In Palestina vivevano alcuni ebrei, ma costituivano una minoranza. Tuttavia, il nazionalismo sionista includeva una dimensione coloniale, in quanto molti nazionalismi dell’epoca erano intrisi di tali caratteristiche. All’epoca, “razza” e “popolo” erano spesso sinonimi.

L’antisemitismo e, successivamente, la Shoah hanno dato slancio alla necessità di un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati. Ma, una parte del sionismo, per realizzare questo obiettivo, ha negato l’identità palestinese, descrivendo i palestinesi come semplici “arabi” e suggerendo che si disperdessero nei Paesi limitrofi. Quindi, già prima del 1948 e della Nakba, si può parlare di colonialismo di insediamento, pur tenendo conto delle peculiarità del caso.

Dopo il 1948, i palestinesi rimasti in Israele sono stati soggetti a discriminazioni fino al 1966, vivendo sotto un regime giuridico di tipo amministrativo-militare, a differenza degli ebrei israeliani. Non godevano di pari diritti, contrariamente a quanto dichiarato nella Dichiarazione di indipendenza. Con il 1967, l’occupazione militare della Cisgiordania ha inaugurato una forma di governo coloniale-militare. Va sottolineato che la Cisgiordania non era stata riconosciuta come “Palestina” anche per colpa di altri Paesi arabi della regione, come la Giordania. Da allora, si è consolidata un’etnocrazia che pratica una discriminazione sistematica contro i palestinesi, sia all’interno che all’esterno dei confini del 1948. Questa situazione è stata definita “apartheid” da organizzazioni come B’Tselem e Amnesty International.

Ciò che vorrei evidenziare è che, al di là delle specificità coloniali di Israele, esiste un tratto nazionalista comune a tutti gli Stati-nazione: la priorità data a una popolazione definita come maggioritaria rispetto a una minoranza, spesso discriminata e mai del tutto integrata. In Israele, questa discriminazione è più marcata, poiché l’identità ebraica non è facilmente acquisibile, a differenza di quella italiana o tedesca (anche se queste identità hanno comunque implicazioni razziali più o meno esplicite). Questo aspetto accentua il carattere oppressivo di uno Stato-nazione che si definisce come “ebraico”.

Un altro problema, come osserva Slavoj Žižek in La violenza invisibile, è che la violenza israeliana rimanda alla recente fondazione della sovranità statale. Il suo scandalo è particolarmente evidente perché il crimine fondativo (la Nakba) è avvenuto solo 78 anni fa, in un’epoca in cui la sovranità occidentale stava già subendo limitazioni imposte dal diritto internazionale. Lo Stato, in questo contesto, resta un elemento cruciale, e i suoi tratti oppressivi si manifestano in modo evidente.

Credo – in ogni caso – che sia fondamentale evitare che, qualora i rapporti di forza si ribaltassero, si replichi sugli ebrei israeliani la violenza subita dai palestinesi. L’antinazionalismo è necessario per spezzare la spirale di violenza. Tuttavia, temo che una visione puramente decoloniale, che affermi un nativismo radicale dove solo gli autoctoni possono rivendicare la terra, rischi di essere dannosa. Sebbene molti ebrei israeliani abbiano doppia cittadinanza, ciò non vale per la maggioranza. Non esiste una “madrepatria” per gli ebrei coloni, quindi non credo che nessuno debba andarsene. Tuttavia, il razzismo istituzionale israeliano deve essere smantellato.

Ovviamente, il nazionalismo dei palestinesi oppressi ha una sua legittimità e ragioni valide. Ma, per dirla con Gayatri Spivak, andrebbe articolato in termini di “essenzialismo strategico”. Inoltre, come ricordava Fanon – spesso citato in questi contesti – bisogna tenere a mente i “limiti della coscienza nazionale”. Fanon, infatti, era un universalista: sosteneva un universalismo diverso, non gerarchico e non razziale. Questa lezione postcoloniale dovrebbe essere riscoperta (...)