Legalità d'evasione di Massimo Carlotto
Dopo una breve stagione politica, il ritorno del giallo a una omologata letteratura d'intrattenimento
di Massimo Carlotto
il Manifesto, 13 giugno 2008
Credo sia arrivato il momento di ritenere conclusa una fase importante del «giallo» italiano e cioè la sua vocazione collettiva di usare lo strumento del romanzo per raccontare la realtà di questo paese. Uso volutamente il termine improprio e obsoleto di «giallo» per delimitare in modo preciso un territorio della letteratura di genere che sta subendo trasformazioni significative e positive imboccando altre strade, magari guardando al passato per interrogarsi sul presente come nel caso nella new italian epic.
Per molto tempo si è detto e si è scritto che il noir e il poliziesco italiano erano la letteratura della realtà. Tutto questo a partire dalla convinzione che raccontare una storia criminale che si sviluppava in un tempo e in un luogo era una scusa per descrivere quella sociale, politica, storica ed economica che circondava gli avvenimenti narrati nel romanzo.
In realtà è stato vero solo in parte perché, al di là delle dichiarazioni d'intenti, non è mai stato affrontato il problema principale e cioè la natura stessa del crimine e il suo ruolo in questo preciso momento storico. E politico.
Il «giallo» italiano ha avuto i suoi momenti migliori quando ha intuito l'importanza del «luogo» e la necessità che venisse raccontato dagli autori che ci vivevano e/o vi lavoravano. E poi quando ha lanciato la sfida di voler colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa quasi totale del giornalismo d'inchiesta. E tuttavia proprio nel momento in cui è più che evidente che il pilastro strutturale del «sistema Italia» si regge sul rapporto tra criminalità organizzate (in tutte le forme possibili) e il mondo politico, imprenditoriale e finanziario, la maggioranza degli scrittori ha scelto di raccontare altro e di evitare di misurarsi su questo terreno. Eppure non c'è settore di questo paese che non sia investito dal crimine e che non sia esso stesso produttore di illegalità. Quell'illegalità diffusa che erode in termini sempre più significativi la qualità della nostra vita e dei nostri diritti. Dall'evasione fiscale all'inquinamento ambientale, dalla sofisticazione alimentare alla malasanità, tanto per citare cose stranote. Il mondo politico, così impegnato a cavalcare una vergognosa campagna sulla sicurezza, preferisce ignorare le infiltrazioni criminali nel proprio tessuto ormai così difficilmente estirpabili che parlare di fenomeno è ormai fuori luogo. Gratta la crosta di un caso qualsiasi di criminalità (vera) e trovi il mondo politico e le sue connessioni.
A parte qualche eccezione, l'Italia che emerge dal giallo italiano è sempre più distante dal paese e rifugge pervicacemente ogni tipo di analisi. E questa volta gli editori non c'entrano. Hanno la responsabilità di aver pubblicato negli ultimi anni qualsiasi cosa avesse un morto nelle prime tre pagine ma sono stati gli autori a scegliere di dedicarsi a una pregevole letteratura di puro intrattenimento che finge di azzannare storie «importanti» ma è ben attenta a starne lontano. Storie a lieto fine dove il caos determinato dal crimine viene ricomposto dalla soluzione che vede trionfante la giustizia. È vero che il romanzo poliziesco è nato con lo scopo «sociale» di reificare l'ansia del lettore determinata dal pensiero della morte e che negli anni si è allargato fino a comprendere un'ampia gamma di fattori ansiogeni. Ma questo ruolo è già svolto in maniera totalizzante dalla televisione. Il circo mediatico del delitto familiare, del mistero stagionale e dell'emergenza sicurezza dell'ultimo minuto è ormai una macchina perfetta.
Non vi è nessuna disonestà intellettuale in questa scelta di «maggioranza». Semplicemente il «giallo» è tornato a essere letteratura puramente consolatoria, scritta in maniera assolutamente professionale da autori in buona parte politicamente convinti della giustezza di riaffermare nei romanzi la legalità dello Stato. Come giustamente ha sottolineato Giancarlo De Cataldo in un importante articolo apparso recentemente su la Repubblica - «Raccontare l'Italia senza paura di sporcarsi le mani», 8 giugno - le scritture della complessità (quelle che non hanno timore di interrogarsi sulle cause) oggi, pur arrivando da esperienze diverse (cinema, teatro, letteratura), si intrecciano e si evidenziano in «quel fenomeno del quale si parla molto in questi giorni, e che viene definito, di volta in volta, rinascita, ritorno all'impegno civile, esplosione del neo-neorealismo italiano, e via dicendo».
A partire dal successo di Gomorra e del Divo, con un'analisi che sottoscrivo pienamente, De Cataldo, mette anche in evidenza che è possibile raccontare l'Italia senza timore della nicchia e, citando Lucarelli, avventurarsi nelle «domande cattive che gli altri tacciono». Inoltre, per De Cataldo le sigle lasciano il tempo che trovano. Anche su questo ha certamente ragione ma a volte, proprio perché nulla nasce dal caso, non è possibile staccarsi da un'identità che si è giudicata fondamentale per la propria formazione. Da tempo, o meglio da un bel po' di romanzi fa, dichiaro la mia appartenenza al Noir Mediterraneo che non è mai diventato fenomeno e tantomeno movimento. Si è trattato perlopiù di una percezione, di un senso di appartenenza, di un punto di vista che ha privilegiato mescolare l'indagine al romanzo. Non solo come momento di raccolta di materiale ma anche come tessuto stesso della narrazione. E oggi sono ancora più convinto di ieri della possibilità di sviluppi e sperimentazioni che allarghino l'orizzonte dell'indagine e il suo inserimento nella struttura narrativa. Mi piace anche l'idea di tentare di delimitare geograficamente questo mare chiuso, eterno luogo di conflitti, crocevia di traffici e circondato da città antichissime, profondamente segnate dal crimine per disegnare una mappa di storie in grado di raccontare la sua specificità.
Oggi il Noir Mediterraneo come l'aveva inteso Jean Claude Izzo è morto e sepolto e non ha nemmeno senso continuare a parlarne se non nella prospettiva di conservazione della memoria di una svolta importante. Ma forse c'è davvero spazio per un punto di vista «altro», geograficamente e culturalmente caratterizzato, ma allo stesso tempo interno (e riconosciuto) a quella rinascita, a quell'impegno civile, citati nell'articolo di De Cataldo.